La mia prima volta

La prima volta… c’è sempre una prima volta per tutto.

Da quando cominci ad aprire gli occhi e a sentire i rumori intorno a te cominci a scoprire il mondo. La prima volta è sempre una sorpresa, un’attesa spasmodica, una fantasia, una paura impercettibile, nascosta e serpeggiante.

La prima volta che ti appresti ad entrare in carcere è tutto questo ed altro ancora.
Per fortuna che accanto a te c’è un’amica che ti accompagna e ti dà il “battesimo” della prima volta.

Ricordi di un accesso recente leniscono in parte la sorpresa, ma solo fino ad un certo punto. Primo cancello, quello di entrata al parcheggio. Lasciamo tutto in auto, tanto non serve… solo i documenti. Primo portone quello della guardiola, portineria.

L’accreditamento è stato effettuato e non ci dovrebbero essere problemi, il nostro laboratorio è quello di informatica. Io sono un nuovo volontario dell’associazione Jabar. Il primo impatto con la struttura burocratica è quasi scontato. Non si trova nessuna comunicazione degli uffici alle guardie del mio arrivo. Passa il tempo e occorre armarsi di pazienza. Elisa mi guarda e sorride… forse se lo aspettava, lei è abituata a queste cose. Io ascolto il suo tacito suggerimento e rimango in pacifica attesa… della carta.

L’ora è già passata e questo tempo è rubato al contatto con i detenuti. Ma non voglio parlare di burocrazia o disorganizzazione o mancanza di informazioni, questi sono problemi della struttura e della gerarchia carceraria. In qualche modo il problema è risolto e avanziamo oltrepassando portoni e cancelli.

Osservo muri bianchi altissimi, sbarre, serrature, catenacci, chiavi di tutte le misure. Ad ogni porta, ad ogni cancello, ad ogni giro di chiavi sento la sensazione di sprofondare in un tunnel sempre più oscuro e senza via d’uscita.

Elisa mi fa da cicerone e mi illustra cosa si cela dietro a quelle porte. La cucina, il magazzino, il laboratorio, l’officina, l’infermeria…. Ogni porta pare una via di fuga ,ma non lo è affatto. Sento delle voci concitate : sono alcuni detenuti che stanno giocando a calcio su un cortile del carcere. Continua la nostra passeggiata tra cancelli e finestroni e scale…. finché ad un certo punto arriviamo a destinazione: una stanza con una decina di computer . Li accendiamo in modo che siano pronti all’uso e dopo qualche minuto cominciano ad arrivare i detenuti che hanno aderito a questo progetto di informatica.

Ma guarda, sono persone come me, non hanno nulla di diverso se non l’accento della lingua o l’età o l’altezza. Sono persone semplici con sguardi semplici, curiosi per la novità che sono io e mi accolgono con calore e simpatia. Ragazzi giovani, di varie nazionalità, sono meno del solito ci sono stati dei trasferimenti recentemente e anche perché qualcuno non si sente bene. Con noi, mi sono dimenticato di dirlo, c’è una guardia sempre presente. Ci stringiamo la mano per presentarci: Elisa mi presenta a loro come nuovo volontario. Qualcuno di loro si ricorda il mio viso… infatti poi si scopre che io ero già entrato in carcere con il gruppo di percussioni Lamusicanonhaconfini e abbiamo fatto un concerto per loro. Me lo ricordo bene anch’io, c’era la sala piena di persone ed è stato molto emozionante sia per noi musicisti che per loro carcerati. Si crea subito un’atmosfera cordiale e confidenziale. Si parla a ruota libera, senza problemi. Si parla del lavoro che viene portato avanti da questo progetto “informatico”: un giornalino redatto da questi ragazzi che affronta tematiche varie e li coinvolge direttamente.

Parlando con loro non mi accorgo di essere “imprigionato” in alte e spesse mura con le finestre sbarrate, i cancelli chiusi a chiave, le porte custodite da guardie. In quel momento mi sembra di essere in un’aula scolastica in cui si lavora in gruppo e si costruisce insieme qualcosa. Pausa sigaretta… Poi Elisa mi incastra e propone ai ragazzi un’intervista a chi? A me.
Indovinate quale è la prima domanda? “Che idea hai tu delle persone che sono in carcere? Le vedi come persone cattive?”.
Rispondo: “Ogni persona ha la sua storia e non generalizzo… io vi vedo come persone e poi come carcerati, il fatto che voi siate qui non significa che non facciate parte della società e quello che io vorrei fare è mantenere questo contatto tra voi e quelli che sono fuori. Tutti commettono degli errori ed è fondamentale dare la possibilità a tutti di rimediare. Penso che la pena più grande sia quella della privazione della libertà e sono convinto che tutta la società si debba fare carico di questo”.

La guardia presente in stanza interviene esponendo le sue idee e ponendo l’accento sul fatto che occorre una preparazione particolare per gestire le relazioni che si vengono a creare dentro queste mura e che il fattore psicologico è determinante. Rimane il fatto che questi muri non sono muri protettivi ma detentivi, che privano del diritto fondamentale di ogni persona : la libertà. Il tempo vola…è già trascorsa l’ora e mezza a nostra disposizione e dobbiamo “uscire”.

Le porte che si erano aperte all’inizio ora si richiudono…salutiamo i ragazzi fino a che non li vediamo più… sono tornati nelle loro celle. Si ritorna e i passi e le porte e i cancelli varcati in un senso ora li varchiamo nel senso opposto. Mi sento la testa vuota ma so che a minuti , magari fuori all’aria aperta, la mia mente si riempirà come un pallone di pensieri. Ad ogni passo che facciamo per uscire sento l’odore sempre più forte della libertà e rifletto su questo fatto, su quanto sia importante! Quattro porte, cancelli, serrature ,chiavi. Avrei voluto portarli con me quei ragazzi. Finalmente guadagniamo l’uscita e la luce del sole quasi ci acceca… il suo tepore ci riscalda e io faccio un respiro profondo.

Lo so, il mio intervento in questa situazione può sembrare marginale, ininfluente nella condizione di queste persone private della libertà, a prescindere da quello che possono o non possono aver fatto, io non voglio giudicare, non ho chiesto a loro per quale reato siano in prigione, non mi interessa. Ora sono fuori, all’aria, c’è un odore diverso, ci sono colori, non ci sono sbarre, non ci sono guardie. Le emozioni continuano i loro effetti…è il primo giorno e un a prima risposta me la sono data : non posso donare loro la libertà né illuderli di alcunché, posso però far sentire a loro che non sono lasciati soli, che non sono abbandonati e che c’è chi li considera ancora persone. Ovviamente non cesserò il mio impegno sul piano politico per denunciare soprusi, modificare le condizioni di vita e, utopisticamente, all’abbattimento di tutte le sbarre privatrici della libertà. Continuerò a sostenere la necessità che la società si preda carico di tutti i suoi componenti, tutti. Cercherò di contrastare come posso tutta la legislazione repressiva, violenta e discriminatoria nei confronti dei detenuti e di chiunque altro soggetto discriminato.

Lino