A quattro anni dalla morte di Marco Pannella, che oggi manca più che mai

Marco Pannella la chiamava la “nuova shoah”, quella degli ultimi, dei poveri, quella di chi non ha istruzione e di chi non ha possibilità di scelta. La deportazione di massa in strutture totalizzanti di persone che non hanno i mezzi per evitare il contrario, di quelli che si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato e non per loro scelta.

Marco Pannella aveva una ricetta: invocava con la forza del satyagraha, l’amnistia e l’indulto, per aprire le porte del carcere e per una grande stagione di riforme nel paese. Per questo, nella primavera del 2011 fece 82 giorni di sciopero della fame.

Marco Pannella poi si accorse che ci voleva altro, ci voleva il diritto alla conoscenza. 

Le carceri sono il ghetto degli ultimi e il posto dove mettere e dimenticare i problemi sociali, con un costo enorme per tutti, però. Così sulle strade le forze di polizia sono costrette a rincorrere i reati bagatellari e nei tribunali i processi aumentano e la macchina della giustizia si ostruisce. I grandi reati contro l’umanità, la società e l’ambiente rimangono impuniti e dentro ci finisco i diseredati.

La concessione dell’amnistia e dell’indulto significa alleggerire tutto il sistema giudiziario ma la grazia deve assere accompagnata da riforme tendenti alla depenalizzazione e per riuscire a cambiare così drasticamente la società italiana ci vuole la conoscenza e quindi il diritto alla conoscenza che tutti possano vantare.

Il diritto alla conoscenza per creare la coscienza in ognuno, quella che ci sussurra che un detenuto se in carcere riceve un trattamento umano e positivo, esce migliore; che ci sussurra che la paura crea solo odio e che quest’ultimo alimenta la contrapposizione; quella coscienza che ci sussurra che il diverso siamo noi e che il carcere è solo il modo per lavarci quella stessa coscienza nel momento in cui non è alimentata dalla conoscenza.

È molto facile l’appiattimento di tutto verso il basso, cioè è facile dire che un delinquente deve andare in carcere e rimanerci, è facile schiacciare ancora più in basso chi striscia per terra.

Di contro è facile anche scadere nel buonismo a prescindere, ci si sente redenti e fiduciosi del prossimo, unici.

E quindi è anche facile e comodo mettere etichette e categorie, ci semplifica la vita, ci aiuta a mettere ordine nel nostro ragionamento. Ma non si può fare per gli esseri umani.

E quando il nostro percorso di vita lo facciamo guardando negli occhi chi abbiamo davanti, con le proprie etichette, che sia uno spacciatore, un uomo di chiesa, un condannato in attesa di giudizio, un politico, l’uomo della strada o un omosessuale, quando poi scopriamo che tutti hanno un nome, quando alla fine capiamo i loro sentimenti, allora ci mancherà Marco Pannella, che allo stesso modo  parlava con un detenuto o con il Presidente della Repubblica, con l’uomo del marciapiede e con il Dalai Lama.

Diceva Marco Pannella:

“La durata è la forma delle cose”

e l’associazione Jabar comincia a prendere forma.

Giovanni Patriarca